sabato 30 novembre 2013

Emma - Dicono che gli occhi

[Ecco l'inizio di quello che dovrebbe essere un racconto a puntate.]

Dicono che gli occhi siano lo specchio dell’anima. 

Emma ci credeva, ci aveva sempre creduto e per questo motivo era sempre alla ricerca degli occhi di Fabio, perché, secondo quel detto, la sincerità alloggia negli sguardi, non nelle parole. Si domandava, però, quale forza oscura costringesse gli occhi di Fabio ad abbandonare il terreno di gioco dopo appena due secondi. Due secondi non le bastavano per afferrare la verità, per mettere a fuoco quella parte degli occhi che rifletteva e non assorbiva la luce. 2 secondi. Fabio non le concedeva di più.

In quei due secondi Emma vedeva molta dolcezza, un po’ di imbarazzo e un velo di lacrime che inumidivano quei potenziali specchi dell’anima. In quei due secondi Emma veniva assorbita dal suo sguardo, ne diventava amante segreta e non riusciva a razionalizzare per cercare la verità celata dietro quegli occhi castani così profondi e grandi.

Mentre si guardavano negli occhi i muri diventavano bianchi ed ogni rumore cessava. Solo il tempo continuava a scorrere e correre. Le guance e la fronte di lui si arrossavano e questa vampata di vita sfociava in uno dei sorrisi più belli e spontanei che Emma avesse mai visto. Si vedeva che Fabio era innamorato di lei. Emma lo percepiva. Ma non lo capiva. Non lo capiva perché l’intelligenza e la scaltrezza di lui erano un ottimo scudo contro l’imbarazzo che avrebbero potuto generare quei piccoli bagliori sui suoi zigomi. Così, quando qualcuno gli faceva notare il rossore, Fabio, in modo sempre diverso, sdrammatizzava la situazione in modo mai banale e senza mai tradire un filo di imbarazzo.

Emma, però, sentiva che lui l’amava. Gli occhi di Fabio erano avari, ma il suo corpo la cercava in continuazione. La toccava di rado e quando lo faceva ciò avveniva sempre in maniera apparentemente casuale, come quando si è troppo stretti in un’automobile o si porge un bicchiere di vino rosso in segno di cortesia. Ma quel contatto era bramato, atteso e un po’ più sostenuto rispetto ad un normale scontro casuale tra corpi. Così le gambe e gi avambracci continuavano a toccarsi dolcemente anche quando il terzo passeggero dei sedili posteriori era appiccicato al finestrino, e lo scambio dei calici assicurava sempre una dolce carezza alle dita altrui.



E le parole? Le orecchie di Fabio erano sempre vigili quando Emma parlava, troppo vigili. Lei era lusingata da tutta l’attenzione che le era riservata. Anche quando parlavano in gruppo, le parole di lei sembravano avere un peso diverso per il ragazzo dagli occhi marroni. E tutti questi piccoli segnali illudevano Emma di poter tentare di renderlo suo. Fabio non era bello, non nel senso tradizionale del termine. Non troppo alto, non troppo muscoloso, e quando si muoveva le ricordava un punto interrogativo. Ben lontano dall’uomo possente ed esotico che aveva desiderato e avuto in precedenza, dal quale si era fatta guidare alla scoperta del sesso e dal quale era scappata dopo aver capito che non sempre l’amore dorme nel letto in cui uomo e donna si uniscono. La bellezza di Fabio, ne era certa, risiedeva nella sua anima semplice, bella, pura, anima nella quale avrebbe guardato servendosi del suo sguardo.

Ma Fabio non le regalava mai i suoi occhi. Le era capitato di essere ad un soffio dal conquistarli già molte volte. Come al party di fine estate in riva al fiume, quando assieme agli altri colleghi si erano sdraiati a guardare cadere le ultime stelle, o all jazz club la sera in cui si esibiva il gruppo di Francesco, miglior amico di Fabio, e anche al compleanno di Roberta, a fine ottobre, in quella cascina in campagna dove si mangiava un buonissimo pollo al curry. Lo schema si ripeteva sempre, ciclicamente, senza intoppo alcuno agli ingranaggi. Glieli concedeva in prestito per un po’, quei begli occhi scuri, ma li ritraeva quando lei li avrebbe potuti riscattare.

Poi alla serata di beneficenza organizzata dall’università Emma avrebbe potuto avere facilmente quegli occhi. Come era successo già altre volte Fabio, con la scusa di illustrarle le stelle, le passò un braccio attorno alle spalle stabilendo così un contatto fisico, dopo il quale vaneggiò in discorsi troppo banali e scontati per la sua intelligenza. In quel momento si guardarono negli occhi per l’ennesima volta. Fu Emma ad abbassare lo sguardo quando scoccarono i due secondi, e lo fece perché quegli occhi non erano dolci, imbarazzati ed umidi, ma vuoti ed arrossati da due bicchieri di troppo. Emma non li voleva quegli occhi, non voleva quel Fabio che le sembrava persino cattivo e le parlava con un linguaggio offensivo.

Emma non prese i suoi occhi quella notte. In quell’occasione aveva scoperto una parte di Fabio che non conosceva, o meglio, non voleva ricordare. Infatti lo aveva conosciuto al tempo in cui era un assiduo frequentatore di discoteche e sigarette, di donne tanto facili quanto vuote, quando entrambi erano ancora studenti dell’università e facevano la bella vita il venerdì sera. Quegli stessi anni in cui si erano baciati per la prima ed unica volta dopo aver bevuto entrambi abbastanza da non sentirsi responsabili quella dolce dichiarazione d’amore. Ma erano passati anni ed Emma non ricordava nemmeno più se quel bacio fosse stato reale o solo un succoso frutto della sua immaginazione. Quel ricordo in bianco e nero non le faceva male, non la toccava più di tanto: in fin dei conti Emma non era innamorata di lui, non ancora; non se lo permetteva. Era, piuttosto, curiosa di vedere come sarebbe potuta andare tra di loro.

Di notte sognava di trascinarlo in un vicolo buio e fare l’amore con lui, senza parlare, senza dire nulla, affidando al corpo ogni genere di comunicazione. Sognava di prenderlo senza il suo permesso, di baciarlo a lungo alla fermata del tram e scoprire che la sua lingua era sottile e fredda.


Emma continuava a ripetersi che lo avrebbe fatto, lo avrebbe baciato di nuovo senza alcool di mezzo. E quel bacio sarebbe stato per lei importante quanto fare l’amore. 

[.....Continua]


sabato 23 novembre 2013

Ambivalenza


Di un gesto, 
di un nome, 
di un corpo nudo che è sottile e denso e pesante.

Come un ossimoro delicato
quasi inafferrabili, ma
di sconvolgente efficacia. 

Attrazione inscindibile dall'inettitudine, 
amore ostacolato 
dalla consapevolezza.

Volgarità, oh volgarità!
Acclamata, studiata, vista, dichiarata, quasi ostentata, ma 
temuta e giudicata.
Incendio, collo di bottiglia, freno a mano, spazzola, nutella, cellofan, mansarda.
Pensiamo male, pensate bene: 
pensate ed interpretate.

Uscita secondaria dall'evidenza, 
porta di emergenza verso il paese dei balocchi.
Ignoranza? Furbizia?

Può essere, e forse è, o forse non è. 
No, 
non può essere e forse non lo è.

Se fosse altro,
se ci fosse altro
che
                            Ambivalenza?


sabato 9 novembre 2013

Età

Quanti anni hai amore mio?

E quanti ne avrai quando mi raccoglierai da terra per buttarmi via?

Non chiedo eterna venerazione,
 
non mi illudo di un per sempre antiquato

Ma, per favore, non mescolarmi agli altri ricordi,

non usarmi come biglietto da visita.

Conservami,

come una vecchio con un francobollo affrancato.

domenica 3 novembre 2013

Lupin

Emma si lamentava sempre di essere ingabbiata in una vita che non le permetteva di evadere.
Diceva che la routine le impediva di partire, di scappare per più di un weekend al mese.
Emma amava molto quel weekend al mese e passava tutto il tempo a progettarlo, a fantasticare sulla sua prossima breve fuga e quando questa arrivava, era di colpo già finita e allora meditava sulla prossima.

Emma un giorno rimase senza routine, senza una gabbia da cui poter scappare.
Da allora Emma passa le sue giornate a cercare una nuova gabbia, una nuova routine da cui poter scappare ogni tanto. Ma questa vorrebbe sceglierla bene, con le sbarre colorate, in una gabbia ampia, magari abitata da uccellini altrettanto variopinti che cinguettino una melodia bucolica o in una ligua dimenticata.


Emma avrebbe dovuto essere Lupin.

giovedì 5 settembre 2013

Claustrofobia

La prima volta che sono entrata in questo posto ero felice di aver finalmente trovato una stanza bianca, liscia e vuota. Avevo appena aperto gli occhi al mondo ed i fari mi avevano accecata. Questi fari, gli stessi che oggi mi fanno sembrare più bella, che aiutano il fondotinta a coprire i miei brufoli da ragazzina. Poi guardando meglio ho notato che la luce dei fari era blu; ho pensato “va bene, adoro i colori, il blu è un’ottima base per dipingere”. Ancora accecata mi hanno spogliata e vestita con un’uniforme. Ho pensato “va bene, questa stanza non sarà che riempita dalla mia immaginazione”. Poi mi hanno messa in fila, legata ad una sbarra, incastrata diritta su una sedia, dato parole da leggere e non correggere, dipinto i capelli, cambiato la voce, truccato il viso, svuotato con forza lo stomaco. Ho pensato “va bene, sanno quel che fanno e lo fanno per farmi dipingere su quei muri bianchi…emmm….blu”

Sono tornata nella stanza, ormai abituata alla luce dei fari che non mi accecava più, abituata all’uniforme che si era attaccata alla mia pelle. Sono tornata in quella stanza di notte, con i fari spenti. Ho notato specchi sui muri, sedie sul pavimento, sbarre e teli neri sul soffitto. Mi sono specchiata e ho notato di avere le gambe storte, le sopracciglia diverse, la pancia gonfia, i piedi piatti e la schiena gobba. E la mia pancia era flaccida come quella di una quarantenne a lutto. Ho vomitato, ho vomitato tanto. Ed ora questa stanza puzza anche, del mio vomito.

Me ne vado da questa stanza sudicia, me ne vado in una stanza piena e colorata che non pretende d’esse vuota. o su una collina, magari in Austria, che non ha muri.
 

martedì 25 giugno 2013

Scegliere

C'era una volta una bambina che voleve imparare a camminare.
E vagò accompagnata dalla sicurezza di ciò che avrebbe trovato. Trovò animali, distese d'acqua, chiese altissime e case stortissime, schermi sui quali la gente si innamorava, artisti di strada, cantanti per caso, futuri giornalisti e cuori grandissimi.



Poi decise che avrebbe imparato a correre.
E decise che avrebbe iniziato a correre. Ma rallentò per tuffarsi in distese d'acqua, per giocare con gli artisti di strada, per rubare il micorfono ai cantanti che passavano, per cercare di entrare in quoi cuori grandissimi e per innamorarsi come nei film. Ma era ancora decisa a correre.

Si fermò per prendere la rincorsa e in quell'istante non c'erano cuori in cui entrare o microfoni da rubare. C'erano gli artisti, ma da cercare. Non c'era nulla che potesse impedirle di correre. Nulla ma uno schermo ch ogni tanto lampeggiava con immagini passate ma non terminate, immagini che ricomparivano quando non avrebbero dovuto, immagini che proiettavano buche invisibili sulla strada.

Allora chiuse gli occhi, vomitò e non scelse nulla, perchè non c'era questa volta una bambina.

venerdì 7 giugno 2013

Caffè



"Vorrei aver avuto il tempo di stufarmi di te".

La prima volta che Emma partorì questa frase era convinta, con tutta se stessa, che sintetizzasse a pieno la sua storia. L’amore le era passato accanto e l’aveva assaporato senza dargli un nome per qualche tempo, sapendo però che se ne sarebbe andato. Fu come un retrogusto: lo riconobbe solo dopo aver già ingoiato il boccone. E durò, eccome se durò il sapore nella sua bocca.


La seconda volta che pensò questa frase, Emma lo fece per inerzia. Ecco l’amore che le sussurra negli orecchi, eccolo che le passa troppo vicino, che la tocca, la bacia, la vuole, che se ne va, ma senza sbattere la porta. Questo amore se ne va, ritorna e se ne va ancora promettendo però di tornare. Ed Emma già sa che ha cambiato nome, che il gusto non c’è più, ma che lo desidera di nuovo. 


Emma rovoleva quel retrogusto in bocca, pur sapendo che non sarebbe bastato un caffè per cancellarlo.



giovedì 6 giugno 2013

Dove?


Dove troverò mai quel posto permanente che darà forma ai miei pensieri, alle mie idee?



Dovrò viaggiare fino a quando non sbatterò la mia testa contro quella di chi, come me, non sa togliersi i paraocchi e non si ferma a conoscere il mondo.


giovedì 30 maggio 2013

People

People
People who need people
Are the luckiest people in the world,
We're children, needing other children
And yet letting our grown-up pride
Hide all the need inside,
Acting more like children
Than children.

Lovers are very special people,
They're the luckiest people
In the world.

With one person, one very special person
A feeling deep in your soul
Says you were half,
Now you're whole.

No more hunger and thirst
But first be a person
Who needs people.

People who need people
Are the luckiest people
In the world!


 Styne & Merril

domenica 26 maggio 2013



Ho preso tre palloncini colorati e li ho lasciati volare nel cielo.


Poi ho dimenticato di inseguirli.


venerdì 17 maggio 2013

C'era una volta, al di là del mare, un luogo che non conosceva le stagioni. 

La neve si mischiava ai temporali ed il polline appesantiva le foglie secche che cadevano dagli alberi. 

E nulla iniziava. E niente mai finiva. Nemmeno il mare.


sabato 11 maggio 2013

Testamento


Nel modo più naturale possibile gli dissi

Tu non puoi scegliere un mondo in bianco e nero. Io non sarò più bella per te perchè l'unica mia ricchezza sono i colori. Senza colori io non rifletto che il buio della tua anima. Senza colori non posso distorgere ciò che tu vedi squadrato. Senza colori non posso nemmeno nascere. Senza colori sarei trasparente per te ed invisibile per tutti. Nessuno mi vedrebbe e io finirei di esistere. 
Non scegliere il mondo in bianco e nero, fallo per me e per la mia breve esistenza. La gente non si ferma mai ad ammirare i miei colori, ma appena mi vede mi fa scoppiare in minuscole goccioline blu.

Ma tu non lo hai fatto, ti sei fermato. Io ho colorato le tue strade, almeno per un po'. Non uccidermi scegliendo di non vedermi più.


Bolla Blu 

lunedì 6 maggio 2013

Sogno di una notte di mezza primavera



 Lunedì 6 maggio 2013

Stanotte sei venuto a trovarmi. 
Non ti aspettavo. Era da troppo tempo che non ti facevi vivo. 
Non mi chiedi mai come sto, cosa faccio della mia vita senza di te. Non che io abbia bisogno della tua presenza, l’estate, quell’estate, è passata per entrambi da tempo. Ma abbiamo comunque condiviso qualcosa. Tu sai tante cose di me ed io di te, ma siamo tornati estranei. È come se ti fossi dimenticato di quel pezzo di me che ti ho donato. 
Non credo che tu sia venuto da me di proposito, stanotte. La tua deve essere stata una visita gratuita, involontaria come la luce bianca che le nuvole leggere non riescono a coprire. Mi hai risvegliata, mi hai invitata dentro ad un bagno che distingueva le donne dagli uomini per mezzo di colori differenti, ma che aveva un’unica grande porta. Mi hai spogliata, mi hai guardata, ma non hai fatto l’amore con me.



Non so e non ricordo come io sia giunta da te. Ma so come me ne sono andata.